La strategia
non serve
E' possibile realizzare un nuovo rivoluzionario prodotto elettronico
in un'azienda che non ne vuole assolutamente sapere e, anzi, fa sua
una strategia di rifiuto dell'elettronica e di persistenza a oltranza
nella tradizionale tecnologia meccanica? In Italia è possibile, ed
è successo all'Olivetti negli anni '60. Il prodotto di cui parliamo
è il personal computer, anzi, (se vogliamo usare il lessico di allora),
il computer personale, altrimenti detto Perottina: questi almeno
erano i neologismi coniati per l'occasione ad uso esterno e interno
all'azienda.
Le ragioni per le quali vale la pena di ricordare il caso dell'invenzione
del PC non sono solo quella di riaffermare una priorità mondiale italiana
o di ripercorrere un lamentevole amarcord, ma piuttosto di trarne
insegnamenti per capire e affrontare i problemi attuali della scarsa
capacità innovativa del nostro paese, una limitazione cruciale, che
persiste e che condizionerà il nostro sviluppo prossimo venturo.
L'Italia non è, oggi come ieri, affetta solo da una specie di idiosincrasia
o di horror vacui per quanto concerne la ricerca (per la quale,
come è noto, siamo agli ultimi posti tra i paesi industrializzati,
come rapporto tra investimenti e PIL), ma soprattutto da una cultura
industriale che aborre l'idea di correre i rischi connessi all'apertura
di nuovi settori.
Disgraziatamente, siamo oggi in un periodo storico nel quale si stanno
costruendo i fondamenti della società dell'informazione nel mondo
e l'apertura di nuovi settori è proprio l'evento più tipico e maggiormente
portatore di rivoluzionarie innovazioni. Ma in Italia gli innovatori,
come profeti disarmati, continuano ad avere vita grama e, soprattutto
nelle grandi aziende, la cultura dominante è quella dell'imitazione
pedissequa delle mode d'oltreoceano e della rinuncia. Congenitamente,
l'imprenditoria italiana è affetta da una sindrome che la porta a
privilegiare la strategia del follower, una forma di sciovinismo
alla rovescia.
Un caso paradigmatico
Le vicende accadute in Olivetti trent'anni fa sono paradigmatiche,
e vale quindi la pena di riassumerle. Lo scenario è quello del 1961.
La Olivetti è ancora traumatizzata per la improvvisa scomparsa di
Adriano e all'orizzonte si profilano i sintomi di una recessione economica
con la quale si sta chiudendo il decennio del miracolo economico.
L'azienda è impegnata in due avventure, entrambe volute da Adriano:
lo sviluppo della Divisione Elettronica per progettare e produrre
computer e la 'digestione' della Underwood, l'azienda americana da
poco acquisita per conquistare il mercato nordamericano. Ma nessuna
delle due operazioni era condivisa dall'establishment dell'azienda,
abituato ai profitti derivati dal grande successo mondiale della Divisumma
24, calcolatrice uscita dalla magica matita di Natale Capellaro (un
geniale operaio, scoperto da Adriano e da questi nominato direttore
generale). Mentre, però, l'acquisizione della Underwood era bene o
male accettata (anche se a posteriori si rivelò un'operazione disastrosa)
in quanto conforme a una certa normale politica di espansione commerciale
nei settori tradizionali dell'azienda, quello che non andava giù ai
conservatori era l'avventura dell'elettronica, vista come un settore
pericoloso e incerto. Si dice che l'idea di progettare computer provenisse
da Enrico Fermi e venisse formulata in occasione di una sua visita
in Italia nel 1949, nel corso della quale incontrò Adriano. Ma io
credo che l'Olivetti si innamorò dell'idea perché intravide nell'informatica
un ruolo di scienza regolatrice e creatrice di un superiore ordine
estetico in un campo immateriale come quello dell'informazione, così
come l'urbanistica e l'architettura lo sono nel progetto delle città.
Ma Adriano Olivetti era un isolato, che invece di godere dell'appoggio
e della stima dell'establishment industriale se ne tirò addosso l'ostilità
e la diffidenza.
Il risultato fu che, alla sua morte, l'operazione elettronica dell'Olivetti
entrò in una crisi che non saprei definire se più ideologica o finanziaria,
crisi che colpì d'altra parte l'intera azienda. Io ebbi la ventura
di essere testimone diretto della drammatica vicenda, che si concluse
nel 1964 con l'infausta rinuncia e la cessione dell'intero settore
elettronico alla General Electric, in quanto feci parte dei ricercatori
reclutati per il laboratorio di ricerche elettroniche di Pisa, il
primo insediamento dedicato a questa nuova tecnologia.
La cessione della divisione elettronica Olivetti maturò - in tragica
e assurda coincidenza con l'avvio della rivoluzione microelettronica
mondiale - per la precisa determinazione dei poteri forti della finanza
e dell'industria nazionale ad uccidere l'iniziativa, nella totale
indifferenza delle forze politiche.
Innovare dietro le quinte
Ricordo perfettamente una dichiarazione del professor Valletta (presidente
della Fiat e ispiratore del gruppo di intervento che all'inizio del
1964 prese le redini dell'Olivetti) a proposito della crisi:
"La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza
grandi difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una
minaccia, un neo da estirpare: l'essersi inserita nel settore elettronico,
per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può
affrontare".
Non ci volle molto a capire, quando il nuovo management si insediò
ai comandi, quale sarebbe stata la sorte dell'elettronica. Non fu
detto nulla di ufficiale, ma la strategia fu quella di un rilancio
generale di tutti i prodotti meccanici; e la cosa fu pensata in grande
stile, organizzando una presentazione alla mostra internazionale dei
prodotti per l'ufficio, nell'ottobre del 1965 a New York.
Nel frattempo la divisione elettronica venne silenziosamente ceduta
alla General Electric. Fu detto che l'operazione e la conseguente
collaborazione con la G.E. sarebbe servita a riversare sull'Olivetti
i frutti dei grandi laboratori di ricerca americani, che l'elettronica
Olivetti non moriva e che in futuro ne avrebbe tratto dei giovamenti;
ma tutti si resero conto che si trattava di una mistificazione.
E più di tutti me ne resi conto io stesso che, avendo partecipato
alle trattative e lavorando nei laboratori elettronici ceduti agli
americani (dei quali potei saggiare l'arroganza e le loro intenzioni
esclusivamente commerciali), ebbi l'occasione di conoscere le vere
motivazioni dell'operazione. Per questo ebbi la malaugurata idea,
da giovane ingenuo, di contestare la cessione, ottenendo il risultato
di essere dagli americani restituito all'Olivetti, con la preghiera
di togliermi di torno.
Molti pensano con riverenza alla strategia come a una nobile attività
nella quale si decidono le sorti future di una azienda. Nel caso specifico,
le sorti dell'Olivetti furono decise dalla non strategia! Mi spiego
meglio. Il mio rientro in Olivetti dopo la cacciata mi consentì di
dedicarmi a una di quelle attività di studio che le aziende portano
avanti di solito nella più completa indifferenza: si trattava di esplorare
la possibilità futura di costruire con tecnologie elettroniche prodotti
per l'ufficio.
La cosa sembrava allora tanto più inverosimile e improbabile in quanto
negli anni '60 esistevano solo grandi calcolatori, operanti in centri
di calcolo ben lontani dal mondo degli uffici, e nessuna persona ragionevole
pensava che si potessero fare delle macchine elettroniche di costo
e dimensioni tali da stare sulla scrivania di un singolo individuo.
Venni quindi confinato con qualche collaboratore in un piccolo laboratorio
di Milano, in territorio ormai della G.E., perché se agli americani
ero inviso, il clima ad Ivrea, tempio della meccanica, non era molto
migliore.
Ma questa volta
il gruppo di intervento, che aveva puntato tutto sul rilancio della
meccanica, fu davvero sfortunato, perché una piccola grande idea germogliò
inaspettatamente nel mio laboratorio: quella del computer personale
(anticipando di ben dieci anni i P.C. introdotti in America!). Non
voglio qui raccontare le drammatiche vicende che portarono a questo
risultato (e rimando al libro di cui questo articolo costituisce una
sintesi). Ma l'imbarazzo e l'indifferenza con cui il nuovo management
accolse la notizia dell'imprevista epifania emersa dalle stive dell'azienda
ebbero almeno il merito di portare a una timida ma positiva decisione:
quella di esporre la nuova macchina, come puro modello dimostrativo,
in una saletta riservata della mostra newyorkese. Quello che non fece
la strategia, lo fece il complesso di colpa legato alla cessione dell'elettronica
e la voglia di far vedere che la Olivetti, in fondo, sì, qualcosa
di esplorativo con l'elettronica, pur non credendoci, faceva ancora.
Quello che successe alla fiera fu però straordinario e sconvolgente:
il pubblico americano capì perfettamente quello che il management
dell'azienda non aveva capito, ossia il valore rivoluzionario della
"Programma 101"; trattò con assoluta indifferenza i prodotti meccanici
esposti in pompa magna e si assiepò nella saletta per vedere quello
che il nuovo prodotto era in grado di fare.
La stampa, specializzata e non, segnò con i suoi articoli entusiastici
il successo di una presentazione e di un evento non voluto. In pratica,
il nuovo computer fu letteralmente risucchiato dal mercato: si può
dire che non fu venduto, fu solo comprato!
Questo caso insegna che…
Quale insegnamento trarre per i nostri giorni? La New Economy
che sta nascendo nel mondo attorno alla rete delle reti consente oggi
agli innovatori di creare aziende basate solo sulla forza di un'idea.
Nel 1965 questo non era possibile, ma attraverso il web le soglie
da superare per creare un nuovo business si sono ora drasticamente
abbassate. Abbiamo addirittura singoli individui che si permettono
di sfidare i giganti mondiali dell'informatica (vedi il caso dello
studente finlandese Linus Tordvald, che sfida la Microsoft col suo
sistema operativo Linux). E ho anche l'impressione che oggi gli inventori
possano non solo non morire poveri, ma addirittura scalare le classifiche
mondiali dei super-ricchi.
Un altro insegnamento che si può trarre dal 'caso' della "Programma
101" (caso poi realmente usato nei corsi Mba di Harward) è quello
della gestione delle discontinuità, che rappresenta situazioni sempre
più frequenti nella società contemporanea. Sono finiti i tempi nei
quali il futuro poteva essere estrapolato dalle vicende del passato.
Nel campo delle tecnologie, ma anche nel mondo delle applicazioni,
le innovazioni rappresentano, in genere, rotture col passato: le nuove
tecnologie operano come tecnologie killer di quelle tradizionali e
costituiscono la base di nuovi paradigmi; e le aziende che le sanno
sfruttare raramente si ritrovano tra quelle leader delle vecchie.
Infatti, la leadership dell'Olivetti nella meccanica dei calcolatori
e delle macchine per scrivere aveva attenuato o spento la capacità
di intuire e sentire i segnali deboli premonitori della imminente
rivoluzione microelettronica che avrebbe di lì a poco trasformato
il mondo.
Se il piccolo gruppo di riottosi progettisti della "Programma 101"
non avesse avuto la forza e il coraggio di affermare coi fatti le
potenzialità delle nuove tecnologie (per farsi poi artefice della
grande mutazione dell'azienda, dalla meccanica all'elettronica), l'azienda
avrebbe fatto negli anni '60 la stessa fine di tanti nomi prestigiosi
nel settore del calcolo e degli altri prodotti per ufficio, scomparsi
e non più risorti.
Mi auguro, infine, che la storia della "Programma 101" contribuisca
a motivare tanti giovani dotati di capacità creative ad osare e a
rischiare, senza lasciarsi condizionare dai benpensanti del momento,
che nel nostro paese in troppi casi sono portatori di quella cultura
della rinuncia e della pavidità, che fa correre il rischio al nostro
sistema-nazionale di restare escluso dall'affascinante compito di
edificare la società del ventunesimo secolo. Vorrei anche che questo
articolo, e il libro di cui costituisce una sintesi siano percepiti
come un omaggio alla figura di Adriano Olivetti, imprenditore illuminato
e incompreso che precursore dei tempi.
*Questo articolo è una sintesi scritta da Pier Giorgio Perotto
del suo libro Programma 101. L'invenzione del personal computer:
una storia appassionante mai raccontata, Sperling & Kupfer, Milano
2000.